Un telaio.
“La rabbia e l’amore della mia vita da industriale di provincia.”
Questo è il sottotitolo che Edoardo Nesi ha scelto per Storia della mia gente, autobiografia che racconta di come, ancor prima che scrittore, Nesi fosse uno dei tanti padroni del tessile di Prato. Poi sono arrivati i cinesi e il resto è storia: l’aria stava cambiando; per gli artigiani-industriali italiani cresciuti in pieno boom economico si stava imputridendo. E Nesi l’ha capito prima di tanti altri, vendendo quando c’era ancora qualcuno disposto a comprare.
Per un gioco del destino, Storia della mia gente l’ho letto sul treno che da Shanghai porta a Wenzhou, la capitale del tessile cinese e patria di buona parte degli emigrati che arrivano in Italia dalla Cina.
Non è quindi un caso che la prima volta che mi sono seduto a scrivere questa recensione la mia penna abbia sputato sull’agenda un racconto differente, la storia di Sally, agente di commercio internazionale che durante la crisi del debito di Wenzhou ha perso tutto: il lavoro, la casa, i clienti e i risparmi del suo primo anno di lavoro. Sì, perché quello che gli italiani del “I cinesi arrivano in Italia a rubarci il lavoro” non capiscano è che gli schiavi moderni non stanno danneggiando solo il tessile italiano, ma anche quello cinese.
Lavoratori cinesi.
In Italia il Made in China è spesso sinonimo di un capannone pieno di bambini che cuciono scarpe Nike. E’ solo visitando le fabbriche dello Zhejiang che capisci quanto quest’immagine sia distorta dalle informazioni filtrate che riceviamo e dai nostri pregiudizi immortali.
In Zhejiang i capannoni ci sono e come, ma non sono pieni di bambini. Ci lavorano più che altro padri di famiglia arrivati dallo Sichuan: qui nell’est della Cina guadagnano sino a tremila kuai al mese (trecento sessanta euro) e hanno vitto e alloggio assicurato a due passi dalla fabbrica. Quindi, vivendo con modestia, riescono a mandare buona parte della paga alla famiglia che con quei soldi, nelle zone rurali dello Sichuan, campa in maniera dignitosa e manda i figli a scuola.
Poi c’è chi ha fatto il grande salto, si è comprato una tessitrice e lavora in proprio, tessendo su commissione. E i padroni, dirai, chi sono?
“Le triadi,” risponderanno in coro i soliti ben informati. No! I padroni sono né più né meno gli alter ego cinesi di Edoardo Nesi, industriali di provincia che, quando l’economia non gira come dovrebbe, falliscono come i pratesi o il datore di lavoro di Sally.
Viste le premesse e la realtà cinese che conosco, Storia della mia gente l’ho iniziato con un misto di curiosità e scetticismo. Curiosità perché della comunità cinese in Italia so poco e niente, io che a Prato non sono mai stato e che quando Matteo, un amico che ero andato a visitare a Milano, mi ha chiesto:
“Dove vuoi andare, al Duomo o ai navigli?” ho risposto:
“Portami in via Paolo Sarpi.”
Capodanno cinese 2007 in Via Paolo Sarpi, Milano – Photo Credits: Look Forward (DO!) by Mauro Caccivio
Scetticismo perché sospettavo che il libro si rivelasse superficiale, mera cronaca dello sbarco degli schiavi moderni che con il loro accettare salari da fame e condizioni di lavoro preluddiste hanno mandato a puttane il tessile italiano. Il fatto che il libro avesse vinto il Premio Strega era poi per me solo motivo di maggior pessimismo.
Ammetto che mi sbagliavo a sottovalutare Nesi. Storia della mia gente ha una voce potente, una prosa che genera emozioni: puoi sentire la rabbia di Nesi mentre sfogli le pagine del libro.
Poi certo, vista la natura autobiografica del racconto i duri e puri avranno gioco facile a sostenere che il libro avrebbe dovuto chiamarsi “Storia della famiglia Nesi.” O magari ti faranno notare che l’autore indulge un po’ troppo sulle sue vacanze a Harvard e sulla prima manifestazione cui ha partecipato a quarant’anni suonati (quanti di noi organizzano manifestazioni o vi partecipano sin dai tempi del liceo?).
Fair enough, il libro ha i suoi punti deboli, soprattutto se lo leggi dal punto di vista degli operai che non hanno avuto la fortuna di ereditare un’azienda. Però almeno Nesi ci ha raccontato la sua verità, esponendosi sia alle lodi che alle critiche.
Il capitolo che mi ha colpito di più non è quello che descrive le condizioni di lavoro dei cinesi di Prato né quello che narra come dalle incomprensioni tra italiani e immigrati possa scoppiano una rivolta di portata nazionale.
Concessionaria Ferrari in Nanjing Road, Shanghai.
No, a mio parere il capitolo da leggere per capire il punto di vista di Nesi sulla situazione di Prato si chiama Sistema Italia. Lo scrittore ci racconta di come negli anni novanta, all’entrata della Cina nel WTO, i politici ci dissero che una volta che il tenero di vita dei cinesi fosse aumentato noi italiani avremo fatto un sacco di soldi, avremo invaso la Terra di Mezzo con i nostri prodotti! E loro giù a comprare bolidi Ferrari, camicie Dolce e Gabbana e scarpe Geox.
Ma i cinesi anziché comprarlo, il Made in Italy iniziarono a produrlo. E gli economisti nostrani, ai primi segnali che qualcosa non andava, dissero che bisognava puntare sulla qualità, prendere esempio da Giorgio Armani. Leggendo questo passaggio mi è venuto in mente quando Berlusconi, interpellato sulla crisi della FIAT, rispose che bastava appiccicare il marchio Ferrari alla Panda e tutto si sarebbe risolto. Are you serious?
Il particolare che ci era sfuggito era che i nostri industriali di provincia non avevano né l’ambizione né la capacità per fronteggiare i cinesi. Le aziende le avevano aperte nel dopoguerra, quando la concorrenza dei paesi dell’Est e la recessione economica erano miraggi ancora lontani dalla linea dell’orizzonte: a quei tempi le condizioni socio economiche erano talmente favorevoli che per far funzionare un’impresa bastava registrarla alla camera di commercio e lavorare duro.
“Si facevano chiamare industriali ma erano soltanto straordinari artigiani.”
Nesi conclude constatando che come i politici francesi hanno protetto i sussidi alla loro agricoltura e quelli tedeschi la loro industria chimica, i nostri avrebbero potuto fare di più per difendere il sistema manifatturiero italiano, ottenere condizioni di resa meno pesanti di quelle che stiamo fronteggiando ora.
Personalmente ho i miei dubbi: come ammesso dall’autore, la fascia più debole dell’artigianato italiano d’esportazione, quella che sta scomparendo, si basava sulla premessa anacronistica dei dazi e degli aiuti di stato. Ma tentare di fermare la globalizzazione è un po’ come pretendere di censurare Internet o arginare l’Adriatico in Piazza San Marco…
* * *
Una volta una ragazza mi ha detto che se avesse soldi farebbe come Bill Gates, gli darebbe in beneficenza al terzo mondo. Le ho risposto che se avessi anche una minima parte dei soldi di Gates, tornerei nella mia terra per costruire una realtà che dia lavoro a chi non ce l’ha.
Ecco, Nesi questa realtà aveva avuto la fortuna di ereditarla e, prima di perderla, s’impegnava per farla crescere e fiorire.
Questo è il motivo per cui, al di là del fatto che forse neanche politici più in gamba avrebbero potuto salvare l’industria tessile di Prato dalla concorrenza asiatica, condivido e rispetto la rabbia e l’amore di Nesi per la sua terra.
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