Riceviamo e pubblichiamo quest’articolo scritto da Nico de Toma.
I secolo a. C.: C’era una volta l’antica Via della Seta
Quel massiccio reticolo di strade, canali marittimi e vie fluviali lungo i quali si snodava il commercio tra Oriente e Occidente, fra l’Impero Celeste e l’Impero Romano.
La destinazione finale del lungo viaggio? Roma.
Era qui che vi giungeva la seta insieme ad altre merci preziose e a molte altre idee e filosofie.
Nel corso del tempo i Romani ne divennero i principali consumatori.
Alla fine del 1200 fu Marco Polo, il grande viaggiatore e mercante veneziano, il primo italiano ad imbattersi in questa antica magica Via descrivendo le entusiasmanti meraviglie incontrate nel suo cammino in Oriente nel libro “Il Milione”.
XXI secolo d.C.: La Nuova Via della Seta: la Belt and Road Initiative (BRI)
La parola “Belt” sta ad indicare la “cintura” economica dei Paesi lungo l’antica via della Seta tra Europa e Asia, mentre “Road” indica le “autostrade” marittime che dalla Cina raggiungeranno il Nord Europa ed il Mediterraneo.
Dapprima l’iniziativa fu targata OBOR, acronimo di “One Belt, One Road” (“una cintura, una via”), ma dal 2016 si tramutò in “Belt and Road” per eliminare quell’ambiguità del numero “one”, contrapposto invece alla pluridirezionalità progettuale nella costruzione delle infrastrutture.
Ma in cosa consiste questa pantagruelica iniziativa?
Si tratta di un ambizioso progetto che intende rilanciare le antiche Vie della Seta attraverso linee terrestri e marittime.
Un immenso network di trasporti e comunicazioni costellato da strade, binari, tunnel, ponti, porti, aeroporti, fibre ottiche e linee elettriche, che persegue l’audace intento di creare nuove connessioni infrastrutturali via terra e via mare fra Cina ed Europa.
E’ il più grande ciclo di investimenti infrastrutturali del secolo, quello che la Cina si appresta a mettere in campo nei prossimi 15-20 anni: 900 progetti, 1.000 miliardi di investimenti, 780 miliardi di dollari generati dagli interscambi con i Paesi coinvolti, 200.000 nuovi posti di lavoro.
L’iniziativa coinvolge 65 Paesi in cui vive il 62% della popolazione mondiale (4,5 miliardi di persone), il cui PIL (prodotto interno lordo) ammonta a 21 trilioni di dollari, pari al 30% del PIL globale.
Questo gigantesco piano di sviluppo infrastrutturale fu lanciato dal Presidente cinese Xi Jinping nel 2013 e fu inserito nella Costituzione del Partito comunista cinese durante il XIX° Congresso.
Oltre a prevedere il rafforzamento delle infrastrutture già esistenti e la costruzione di nuovi impianti marittimi e ferroviari, il progetto ha l’obiettivo di ridurre drasticamente la distanza fisica tra Cina ed Europa, non soltanto per favorire e facilitare gli scambi commerciali sino-europei ma anche per migliorare le relazioni politiche e interpersonali grazie allo spostamento di persone con la progettazione di linee ad alta velocità.
Per promuovere questo sconfinato progetto, il 14 e il 15 maggio 2017 si è svolto a Pechino un Summit internazionale nel corso del quale il Presidente cinese Xi Jinping ha annunciato di voler sostenere il Fondo della Via della Seta, partito inizialmente con 40 miliardi di dollari, con altri 100 miliardi di yuan, equivalenti a più di 14 miliardi di dollari.
I finanziamenti, difatti, saranno elargiti dal Silk Road Fund e da altri istituiti di credito cinesi, tra cui la China Development Bank, l’Export and Import Bank of China, la Banca asiatica per le infrastrutture e gli investimenti (AIIB) (1,7 miliardi).
E’ in questo nuovo quadro finanziario – istituzionale che nel 2015 ad Hong Kong è stata costituita la Silk Road Chamber of International Commerce (SRCIC), la quale offrirà opportunità di commercio e investimenti sia al settore pubblico che privato per la realizzazione di progetti legati alla BRI.
Ad oggi conta già 81 Paesi membri.
L’importanza attribuita dall’Italia alla BRI è stata confermata dalla presenza al Forum dell’ex Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni, unico leader del G7 presente al Forum di Pechino.
In quell’occasione i due Paesi hanno condotto fruttuose discussioni su come rafforzare la cooperazione nel settore delle infrastrutture e hanno mostrato una volontà politica molto forte nel voler aumentare la cooperazione attraverso la Belt and Road.
Le nuove rotte commerciali della Belt and Road
La BRI (Belt and Road Initiative) prevede l’apertura di due rotte commerciali fra Estremo Oriente e continente europeo sulla falsariga delle antiche Vie della Seta:
Silk Road Economic Belt (SREB)
Questa prima rotta consiste in un percorso ferroviario che interessa tutti i Paesi situati lungo l’antica Via della Seta: l’Asia centrale, l’Asia occidentale, il Medio Oriente, la Russia e l’Europa.
Questa nuova rotta collegherà anche la Cina all’Asia meridionale e al Sud-Est asiatico.
XXI Century Maritime Silk Road (MSR)
La rotta lambisce le coste di tutta l’Asia Orientale e Meridionale fino ad arrivare al Mar Mediterraneo, passando attraverso il Canale di Suez.
Su tali rotte quale potrebbe essere il ritorno economico del nostro Paese alla colossale iniziativa cinese?
Due sono gli aspetti che più possono avere impatto sulle imprese e quindi sull’economia italiana: le nuove reti ferroviarie che connettono la Cina all’Europa e il rafforzamento dei porti, in particolare nel Sud Europa.
La Via della seta terrestre – Le ferrovie
La BRI prevede tre corridoi principali. Il primo è quello che dalla Cina attraversa Kazakhstan, Russia e Polonia e termina in Germania. Il secondo connette la Cina alla Transiberiana e quindi all’Europa. Il terzo è un passaggio più a Sud, attraverso i Balcani.
L’aumento delle connessioni ferroviarie con l’Asia, non solo con la Cina, creerebbe sicuramente nuove opportunità per le imprese italiane. Tuttavia l’impatto, almeno nel medio periodo, non sarà particolarmente rilevante.
Le stime più accreditate prevedono che le ferrovie saranno in grado di movimentare dai 300.000 ai 500.000 container l’anno. Numeri interessanti ma che rappresentano una piccola percentuale dei circa 20 milioni di container trasportati via mare ogni anno tra Europa e Asia.
La Via della seta marittima – I porti
La Via della seta marittima del XXI secolo prende ispirazione dalle storiche rotte marittime che ebbero il loro momento di massimo splendore nel XVI secolo: partendo dalle coste cinesi, collegavano Oriente e Occidente attraverso una serie di snodi commerciali lungo il Mar cinese meridionale e l’Oceano Indiano.
La nuova Via della seta marittima intende far rivivere queste tratte cercando di coinvolgere anche i Paesi e le regioni storicamente escluse i cui mercati sono oggi in crescente espansione.
La via marittima della BRI prenderà forma tramite una serie di progetti volti a costruire un network di porti e infrastrutture che permetterà di connettere la Cina al Sud-est asiatico, all’Africa orientale e al Mediterraneo.
Ed è in questo contesto che l’Italia potrebbe giocare la sua partita. Il progetto di punta italo-cinese connesso alla Via della seta marittima è rappresentato dall’alleanza tra cinque dei maggiori porti del Nord Adriatico.
Il progetto sarà cofinanziato dal governo italiano e dal Silk Road Fund ed interesserà i porti italiani di Venezia, Trieste e Ravenna congiuntamente alle strutture portuali di Capodistria (Slovenia) e Fiume (Croazia).
Il consorzio mira ad attrare enormi navi cargo cinesi che raggiungeranno il Mediterraneo attraverso il Canale di Suez. L’opera finale comprenderà anche la costruzione di cinque terminal: tre in Italia (Marghera, Ravenna e Trieste), uno in Slovenia (Capodistria) e uno in Croazia (Fiume).
Il progetto avrà un costo stimato intorno ai 2,2 miliardi di euro di cui 350 milioni già stanziati dal governo italiano per l’inizio dei lavori della piattaforma di attracco al largo della laguna di Venezia.
Una volta realizzato, il progetto dei “cinque porti” permetterà all’Italia di competere con il porto greco del Pireo e quello turco di Istanbul, offrendo alle navi cinesi una rotta sud-nord Europa alternativa a quella che dai porti del sud del Mediterraneo passa attraverso i Balcani.
Altri terminali marittimi italiani che potrebbero essere coinvolti nel progetto sono Genova-Savona nel Tirreno e Taranto nello Ionio.
Va da sé che per realizzare queste infrastrutture e poter far transitare le merci occorreranno scali, porti con acque profonde, moli sufficienti a scaricare grandi quantità di merci, retroporti attrezzati, moderni collegamenti ferroviari con i Paesi interni.
L’ex premier Paolo Gentiloni, in visita al Forum di Pechino, ha sostenuto con forza i sistemi portuali di Genova-Savona, primo porto d’Italia, sbocco dell’area più industrializzata d’Europa, e il porto di Trieste, come strumenti strategici di alimentazione dei traffici provenienti dalla Cina che, accanto a Venezia, potranno costituire lo snodo dei corridoi logistici della Via della Seta del XXI secolo.
L’ex Presidente ha anche sollecitato una più vasta collaborazione cinese nei collegamenti aerei e nel settore infrastrutturale e ha auspicato un’importante ricaduta positiva della BRI per l’economia italiana.
La Cina, che ha già investito nel porto del Pireo in Grecia, ora è alla ricerca di un canale di accesso più conveniente per connettere velocemente le sue merci con il resto dell’Europa.
Poiché il punto di arrivo di quella che diverrà la Via della Seta del XXI secolo sarà proprio il Mediterraneo, la Cina guarda all’Italia come la porta d’ingresso per l’Europa: i porti italiani, in particolare quelli adriatici che accolgono le navi in arrivo dal canale di Suez e le ferrovie che dal Nord Italia si ramificano in tutto il Vecchio Continente, sono diventati un’enorme attrazione per il governo cinese pronto a sfruttare le opportunità logistiche e le infrastrutture strategiche per la realizzazione della BRI.
Quali migliori porti se non quelli italiani per ricevere e fra transitare le merci cinesi?
La centralità del Mediterraneo e il Porto del Pireo
Se si guarda l’andamento dell’interscambio commerciale (importazioni ed esportazioni) da e verso i Paesi della sponda Sud del Mediterraneo e quelli del Golfo dal 2001 a oggi, si osserva una crescita costante: l’Italia è passata da 38 a 66 miliardi di dollari americani, la Germania da 41 a 90, gli Stati Uniti da 83 a 168.
Chi però ha fatto un balzo impressionante è la Cina. Nell’area asiatica centrale e nel Nord Africa l’interscambio cinese è passato dai 21 miliardi di dollari del 2001 ai 257 del 2015, con stime in crescita fino ai 283 miliardi del 2018.
La maggior parte di questo commercio avviene via nave. Questi dati essenziali consentono di comprendere l’evoluzione che è in corso e che tocca direttamente il futuro del Mediterraneo, e la sua crescente centralità nella geo-economia marittima.
Si tratta di un fenomeno che possiamo misurare anche dal peso che hanno le diverse rotte marittime globali. Se confrontiamo, ad esempio, i flussi di navi container lungo le tre maggiori rotte Est-Ovest nel ventennio 1995-2015, ci si accorge che i transiti di container sulla rotta Asia-Europa (via Suez e Mediterraneo) sono cresciuti dal 27% del 1995 al 42% del 2015, e nello stesso periodo lungo il “Trans-Pacific” e il “Transatlantic” sono calati rispettivamente dal 53% al 44% e dal 20% al 13%.
Per essere ben compresi questi dati vanno letti contestualmente ad alcuni fenomeni tra loro interconnessi: primo fra tutti il raddoppio del Canale di Suez avvenuto nel 2015.
Si tratta di un’opera imponente che ha comportato lo scavo di un nuovo canale lungo 72 chilometri e profondo 24 metri che consente il contemporaneo attraversamento nelle due direzioni ed il raddoppio del numero delle navi in transito giornaliero, con un tempo di passaggio fortemente ridotto.
La Cina ha compreso perfettamente la crescente importanza strategica della rotta via Suez anche per raggiungere gli Stati Uniti e non solo l’Europa.
Ed è proprio in questo scenario che si inserisce il robusto investimento del colosso di Stato cinese Cosco (China Ocean Shipbuilding Company) nel porto del Pireo. La Cosco ha, difatti, acquisito il 67% delle quote di mercato della società che controlla il porto greco del Piero.
Ed è grazie alla gestione della Cosco che il principale porto greco è salito dal 93° posto al 39° posto a livello mondiale per capacità di movimentazione delle merci.
Prima dell’investimento cinese, il Pireo movimentava soltanto circa 500.000 container all’anno mentre oggi ne movimenta 3 milioni e dovrebbe arrivare in pochi anni a 6 milioni. Va da sé che il porto del Pireo può cambiare gli equilibri competitivi in atto nel Sud Europa.
Da un lato il rafforzamento del Pireo è un fattore positivo perché aumenta l’attrattività del Mediterraneo, ma, dall’altro, può togliere traffico ai porti italiani, in particolare a quelli adriatici.
La Cina inoltre sta progettando una ferrovia per collegare il porto del Pireo al centro Europa attraversando i Balcani, indebolendo di fatto i porti italiani e le imprese che questi porti utilizzano con i relativi territori, i quali si troverebbero così ad essere meno competitivi.
I porti di Ravenna, Venezia e Trieste movimentano oggi meno della metà dei container del solo Pireo. Per rispondere a una crescita di questo tipo sarà necessario che i porti del Nord Adriatico attuino una strategia comune. Nessuno di essi, da solo, è in grado di attrarre sufficienti volumi di traffico e gli investimenti necessari per diventare una scelta alternativa al Pireo.
In un momento storico caratterizzato da risorse pubbliche molto scarse è necessario concentrarsi su pochi investimenti che siano in grado di attrarre anche capitali privati.
I cinesi potrebbero essere interessati ad avere una sorta di seconda opzione al Pireo nel caso in cui, ad esempio, la costruzione della ferrovia che dovrà attraversare i Balcani dovesse incontrare degli ostacoli, data la situazione non proprio pacifica dell’area.
In tal caso, la via marittima adriatica potrebbe rappresentare un’ottima alternativa. La crescente centralità del Mediterraneo nello scenario geo-economico globale inizia ad essere evidente soprattutto sulle rotte marittime attraverso cui passano le merci.
L’Italia potrebbe giocare il ruolo di hub logistico portuale quale base per accedere direttamente all’Europa continentale. Un’ottima strategia per la quale serve una visione geo-economica, investimenti nella portualità e migliore efficienza logistica.
Vorrà la nostra Nazione farsene carico?
le motivazioni cinesi della Belt and Road
Nel pensiero del Presidente cinese Xi Jinping, la BRI con i suoi collegamenti fra Estremo Oriente ed Europa creerà un corridoio di merci e capitali che darà la possibilità alle aree meno sviluppate di immettersi nei flussi dell’economia globale.
La vicinanza con infrastrutture di queste dimensioni attirerà investimenti e concorrerà alla diffusione del benessere in aree in via di sviluppo come Asia Centrale, Mongolia ed Asia-Pacifico.
Il progetto, che coprirà regioni geografiche diverse con diseguali livelli di sviluppo, rappresenterà una nuova fonte di energia per l’economia mondiale e per una “pacific global governance”, richiedendo una collaborazione ed interazione mondiale senza precedenti.
La Cina si è difatti impegnata a importare nei prossimi cinque anni merci per un valore di 2.000 miliardi di dollari dai Paesi che si trovano lungo la Nuova Via della Seta e ad investirne almeno 10 in iniziative che sostengano la fetta della popolazione più povera che vive in queste aree.
Lo scopo che l’Impero di Mezzo si prefigge, dunque, è quello di prendere il timone della “nuova globalizzazione” per indirizzarla verso nuove mete, fondate più sulla collaborazione che sulla concorrenza, in un network che abbraccia non solo i Paesi ma anche i popoli, per la costruzione di un’economia aperta, modellata da un commercio libero e inclusivo contro qualsiasi rovinoso protezionismo.
E’ da queste idee che si ramificano i cinque pilastri fondativi della BRI nel pensiero di Xi Jinping: le infrastrutture, il coordinamento politico attraverso negoziazioni con i Paesi attraversati o raggiunti dalla “nuova via della seta”, il libero scambio
l’integrazione finanziaria, e l’integrazione sociale, per la creazione di un nuovo super-Continente eurasiatico, dove la Cina si propone come baricentro economico e politico, alternativo agli Stati Uniti.
La Belt and Road dunque non si iscrive solo in una precisa agenda economica volta ad aumentare i flussi di beni verso l’esterno, ma vuole anche rappresentare un potente mezzo per accrescere il peso culturale, politico e diplomatico del Paese a livello mondiale.
Qualora la BRI dovesse avere successo, la Cina otterrebbe tre importanti risultati:
- l’attuazione del suo progetto, stilato anche per aiutare la Cina a sostenere la crescita economica dall’esterno;
- un implicito sostegno internazionale a una visione del mondo che, per quanto inclusiva possa essere, resta sempre di impronta cinese;
- un miglioramento dell’immagine che il mondo ha della Cina.
Certo è che il primo interesse cinese nella BRI deriva dalla necessità di smaltire gli eccessi di produttività nazionali, flagellati dalla contrazione della domanda internazionale in seguito alla crisi del 2007.
Da quell’anno il PIL cinese si è assestato su tassi di crescita ad una sola cifra entrando in una fase di progressivo rallentamento. Il fallimento della riconversione dell’economia da un modello “export oriented” ad uno trainato dai consumi interni sta quindi spronando la Cina a cercare fuori dai propri confini dei mercati capaci di assicurarne nel tempo la sua crescita economica.
La BRI garantirebbe quindi un forte supporto logistico alle esportazioni cinesi (abbattendo i costi di trasporto) e faciliterebbe l’approvvigionamento di materie prime.
Nel suo vasto e inclusivo progetto alcuni hanno intravisto nella BRI un nuovo Piano Marshall dalle caratteristiche cinesi, sebbene il confronto col piano politico-economico statunitense attuato per la ricostruzione dell’Europa Occidentale distrutta dopo la seconda guerra mondiale, a parere di chi scrive, non regge.
Perché? Innanzitutto perché la Cina non pone condizioni politiche, né tocca gli assetti politici interni dei Paesi interessati, né detta ideologie.
Il suo obiettivo principale è quello di vendere, comprare e aprire vie di traffico, non solo alle proprie merci, ma anche a quelle di tutti i propri partner secondo quella logica tutta cinese di reciproco vantaggio (win-win).
Secondo i cinesi, i capisaldi della BRI sono quattro, tutti volti alla pacifica cooperazione internazionale e al mutuo vantaggio:
- Peace and cooperation (pace e cooperazione);
- Openness and tolerance (apertura e tolleranza);
- Mutual learning (apprendimento reciproco);
- Mutual benefit (beneficio reciproco).
Su questi quattro capisaldi la BRI fonda due corollari strategici:
- il mantenimento di una mentalità da grande potenza promuovendo i valori cinesi all’interno delle istituzioni, dei progetti e dei regolamenti della BRI, evitando di importare dall’esterno le cosiddette “best practices” occidentali;
- il concepimento nella BRI della “grande sicurezza”, evitando ogni danno potenziale agli interessi nazionali e prevenendo ogni minaccia politica ed economica alle istituzioni finanziarie cinesi.
La strategia si attuerebbe attraverso alcune “combinazioni”:
- investire all’estero ma allo stesso tempo indurre le società dell’area BRI a partecipare al mercato cinese;
- supportare finanziariamente i paesi della BRI per favorirne lo sviluppo in modo da ricevere in seguito il loro appoggio e la loro amicizia;
- combinare sviluppo e sicurezza e assicurarsi che lo sviluppo non sia messo a repentaglio da alcun rischio;
- promuovere il legame tra l’economia reale dei paesi BRI e il potere finanziario cinese in modo da favorire il controllo finanziario e l’influenza politica della Cina nella regione;
- sostenere con un’ampia flessibilità strategie che si adattino ai diversi Paesi e costruire allo stesso tempo sistemi di valutazione del rischio per sventare crisi potenzialmente dannose agli interessi cinesi nell’area, creando un sistema d’interdipendenza finanziaria tra la Cina e i paesi della BRI.
Vantaggi per l’Italia: Nuova centralità e più export
La “Via della seta marittima” risulta essere un’occasione imperdibile per l’Italia che trova nella Cina un potenziale alleato per la stabilità e lo sviluppo di tutto il bacino del Mediterraneo.
L’Italia purtroppo oggi sta scontando la sua duplice perifericità: il nostro Paese si colloca oggi sia ai margini del sistema “NATO” che del sotto-sistema atlantico “UE-Euro”.
Per l’Italia, questa “rivoluzione geopolitica” è preziosa in quanto le consente di riacquistare una centralità persa alla fine del Quattrocento, quando la Spagna, la Francia e infine la Gran Bretagna le sottrassero il primato economico europeo.
Se oggi l’Italia non riesce a prosperare come periferia del decadente impero angloamericano, né come debole Paese di un’Unione Europea trainata dalla Germania, allora avrà un avvenire soltanto riscoprendo la sua centralità nel Mediterraneo, generando attorno a sé un proprio sistema geopolitico che inglobi il Nord Africa, i Balcani, il Mar Rosso e l’Oriente.
Ed è proprio per rinsaldare questo antico ruolo che le viene in aiuto la nuova Via della Seta cinese. Il Mar Mediterraneo, tornando ad essere il luogo di scambio dei flussi economici fra Europa e Asia, si rimpossesserebbe di quella centralità ormai persa quando circa seicento anni fa il baricentro del mondo si spostò sull’Oceano Atlantico.
Inserirsi nella BRI è quindi un’opportunità da non perdere per l’Italia: migliorando i collegamenti infrastrutturali con l’Asia, ormai divenuta il cuore pulsante dell’economia mondiale, le imprese italiane avranno l’opportunità di incrementare l’export del Made in Italy in molti Paesi centro asiatici e in particolare in Cina, e di conquistare nuovi mercati.
Non dimentichiamo che la BRI attraversa Paesi che rappresentano il 63% della popolazione mondiale, la gran parte ancora in via di sviluppo, un mercato immenso dunque, che nei prossimi anni offrirà opportunità importanti per le imprese cinesi e italiane.
Dal 2014 al 2016 l’interscambio commerciale della Cina con i Paesi situati lungo la Via della seta ha superato i 3.000 miliardi di dollari con un totale di investimenti cinesi pari a più 50 miliardi di dollari.
Ciò ha generato circa 1 miliardo di dollari di introiti fiscali e 180.000 posti di lavoro nei Paesi partecipanti, promuovendo pertanto una prosperità sempre più condivisa.
La Industrial and Commercial Bank of China (ICBC) ha recentemente aperto diverse filiali in Italia per finanziare aziende italiane e cinesi interessate a partecipare a progetti connessi alla realizzazione della nuova Via della seta.
L’Italia dovrà riuscire a inserirsi attivamente nel progetto di Pechino, presentandosi non solo come punto di passaggio per il trasporto di merci, via mare e via terra, ma come vero e proprio luogo d’incontro fra Oriente e Occidente.
La crescente presenza cinese in Italia e, più in generale, nel Mediterraneo ha degli evidenti vantaggi per tutti i Paesi interessati.
I recenti investimenti stanno creando nuovi posti di lavoro e aiutano nella riqualificazione delle infrastrutture, facilitando lo sviluppo di nuove sinergie tra imprese logistiche, portuali e manifatturiere.
L’Europa, tuttavia, non ha saputo elaborare finora una risposta strategica organica alla crescente presenza cinese nel Mediterraneo. Servirebbe una strategia ad ampio spettro che affronti sia la dimensione economico-commerciale che quella della sicurezza e l’Italia è nella posizione ideale per farsene promotrice grazie al suo ruolo centrale, sia politico che economico, che essa riveste nell’area.
Critiche all’iniziativa Belt and Road
Poca trasparenza
La partecipazione degli altri Paesi agli sforzi finanziari richiesti dal progetto dipenderà largamente dalle garanzie che i responsabili del progetto, in primis la Cina, saranno in grado di dare a livello di trasparenza nella gestione amministrativa.
Formalmente il Silk Road Fund (il Fondo della Via della seta) promette di attribuire le risorse finanziarie seguendo “princìpi di mercato”, ma la preoccupazione maggiore è quella che dal progetto possano beneficiarne soprattutto le imprese cinesi e che i flussi di danaro possano non essere così troppo trasparenti.
Restano inoltre ancora troppi dubbi sulle reali modalità di partecipazione al progetto, sulla poca chiarezza nel diritto cinese circa le regole sugli appalti pubblici, sulle indiscrezioni riguardanti gli incoraggiamenti del Governo cinese alle proprie banche d’investimenti affinché finanzino principalmente le proprie imprese nazionali.
Rischi di natura finanziaria
Dubbi sono stati sollevati sulla capacità della Cina di disporre di risorse finanziarie sufficienti per sostenere quell’ampia circolazione di uomini e materiali richiesta dal progetto.
Pechino si è impegnato a finanziare oltre 900 progetti con circa 900 miliardi di dollari, ma secondo l’Asian Development Bank il deficit infrastrutturale nella sola Regione asiatica, da qui al 2030, ammonterebbe a ben 26 trilioni di dollari.
Chi finanzierà la restante parte?
Stando a quanto ha sostenuto la Banca Centrale Cinese, la responsabilità ricadrebbe sugli istituti di credito internazionali che fino ad oggi sono stati coinvolti nell’iniziativa in maniera troppo marginale.
La prospettiva di ritorni incerti su investimenti a lungo termine in aree del globo particolarmente instabili non sembra incentivare l’erogazione di prestiti.
Questo è un aspetto che per il momento non preoccupa la Cina la quale può fare fortemente affidamento sulle sue riserve in valuta estera e su una squadra di banche di proprietà governativa.
Del resto, è proprio questa pacata disinvoltura a riaffermare la sostanziale natura sinocentrica del progetto e della nuova geometria economica mondiale.
Diffidenza nei Paesi coinvolti nella BRI
Il mega-progetto cinese ha incontrato la diffidenza di molti dei Paesi coinvolti nella BRI. Molte sono le difficoltà legate al timore di taluni Paesi di vedere erosa la loro sovranità nei confronti di Pechino.
La Thailandia, per esempio, si è opposta all’asse che doveva collegare la Cina con Singapore. Tutti i Paesi accettano i finanziamenti cinesi ma non intendono partecipare ai costi dell’iniziativa.
Inoltre, i trasporti per strada e per ferrovia non sono così tanto redditizi quanto gli oleodotti, i gasdotti e i trasporti marittimi.
Da ricordare inoltre che non tutti gli Stati ne fanno parte, come gli Stati Uniti e il Giappone.
L’India ha definito la BRI un progetto colonialista, in virtù dl fatto che un corridoio commerciale che attraversa un territorio conteso (il Kashmir pakistano) non può essere considerato pacifico.
La Francia, la Germania e la Gran Bretagna, pur avendo accolto con entusiasmo il progetto cinese nel 2013, stanno ora assumendo un atteggiamento più diffidente, dettato forse dalla poca chiarezza dell’iniziativa e dall’incertezza su chi nel tempo ne trarrebbe i maggior benefici.
La Russia, nonostante l’aumento dell’influenza cinese in Regioni considerate di propria esclusiva influenza (come l’Asia Centrale), sta assumendo un approccio tollerante alla BRI.
Le fanno eco gli Stati Uniti d’America che per il momento hanno assunto un atteggiamento neutrale, anche in virtù del fatto che la Cina non li ha minimamente coinvolti nell’iniziativa.
Il posato atteggiamento americano è anche motivato dalla necessità di ottenere l’appoggio cinese per la gestione della crisi nordcoreana.
Instabilità politica
Vi sono oggettive criticità che caratterizzano alcune delle aree potenzialmente interessate alla BRI e gli attuali accordi economici e politici raggiunti non sembrano facilmente implementabili.
Basti pensare alla cronica instabilità in Medio Oriente o al problema della pirateria lungo le coste del Mar Rosso o alle tensioni fra Cina, Taiwan, Filippine e Vietnam nel Mar Cinese Meridionale.
Competizione commerciale e sicurezza
Gli investimenti previsti dalla BRI si concentreranno prevalentemente in Asia. In primo luogo, quindi, la BRI renderà più forti le connessioni tra i paesi asiatici.
L’Europa potrebbe, almeno in termini relativi, perdere parte della sua centralità economica. Inoltre, se da una parte il crescente volume di scambi commerciali e l’arrivo di nuovi capitali è stato accolto con favore, l’interesse per la BRI da parte dell’Europa del Sud e dei Paesi nordafricani ha fatto emergere nuovi problemi legati sia alla questione della sicurezza nelle acque del Mediterraneo che alla competizione commerciale.
I mercati mediterranei verranno sottoposti ad una feroce concorrenza dal momento che le imprese cinesi ora potranno contare su un abbattimento dei costi di gestione e di trasporto delle loro merci.
Considerazioni finali
La BRI è un progetto di politica industriale transnazionale più ambizioso mai concepito nella storia economica mondiale. Oggi, con il tramonto delle tradizionali potenze egemoniche e la nuova forza accumulata nel corso degli anni dalla Cina, si stanno cerando le premesse per un disegno geo-economico organico e strutturato, una nuova gerarchia mondiale con al centro Pechino.
Da questo punto di vista la BRI non rappresenta solo un’iniziativa economico-diplomatica, ma è anche e soprattutto una strategia che mira alla realizzazione di un più ampio progetto inscritto nel “Sogno cinese” (Zhongguo meng).
Ovvero il rinascimento della nazione cinese e la trasformazione della Cina in una società “moderatamente prospera” entro il 2021
(centenario della costituzione del Partito comunista cinese), e in un Paese “forte e ricco” entro il 2049 (centenario della fondazione della Repubblica Popolare Cinese).
Nonostante le diverse ripetute criticità che si affastellano sul colossale progetto, a parere di chi scrive, l’Italia dovrebbe rinsaldare i suoi rapporti con la Cina attraverso la provvidenziale àncora della BRI.
L’Italia e la Cina, per quanto culturalmente e storicamente differenti, condividono la medesima progettualità interna ed esterna al Paese.
La Cina e l’Italia possono rafforzare la cooperazione bilaterale nella manifattura ad alto valore aggiunto, nel risparmio energetico e nella tutela ambientale, ma anche in molti altri comparti, come l’agricoltura moderna, la moda e il design, l’energia e la costruzione di architetture.
Entrambe sostengono lo sviluppo di un’economia mondiale aperta e si oppongono al protezionismo commerciale e degli investimenti, sostenendo il mutuo vantaggio.
Entrambe rispettano le diversità e ritengono che civiltà diverse debbano imparare le une dalle altre.
Entrambe rappresentano rispettivamente la culla della civiltà Orientale e la culla della civiltà Occidentale.
Quale partner più strategico per la Cina se non l’Italia?
La nostra nazione potrebbe cosi tornare a svolgere la sua storica funzione di “ponte” fra Oriente e Occidente, avvantaggiandosi delle enormi ricadute economiche e occupazionali che ne deriverebbero dal progetto della BRI.
A parere di chi scrive, non deve farsi sfuggire questa grande occasione.
I nostri potenziali alleati, oggi, si trovano anche a Oriente.
Il sole sorge ad Est.
Biografia
Nico de Toma ha conseguito una laurea in economia e commercio all’Università degli Studi di Bari. Ha discusso una tesi in Storia economica sulle riforme economiche denghiste e sulla crescita dei consumi in Cina. Ha seguito corsi riguardanti l’economia, la società e il diritto cinese. Affascinato dalla cultura asiatica ed appassionato di viaggi e scrittura.
Vittorio Lin dice
l’articolo è molto interessante !
Continua così e facci sapere molto di più sulla Cina.
Ti ringrazio, un saluto, Vic
Furio dice
: )